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La bellezza di Paghman – Lorenzo Merlo Ekarrrt

Titolo: La ragazza di Paghman
Dimensioni: 24x30 cm

Cuore

Prima dei colori del vestito, prima di apprezzare la grazia dello scialle, la dolcezza del volto e la sua bellezza, prima di ipotizzare l’età, di chiedersi chi sia e dove sia, prima di tutto è la sofferenza a imporsi, ad essere riconosciuta e sentita. Non c’è muscolo visibile del viso o nascosto della spalla e del collo che non partecipi all’immagine della pena. E non ci sono neppure gli occhi, sempre giustamente necessari per edificare i ponti emozionali, per sentire il prossimo, per la compassione. Eppure, lo spirito della sofferenza si esprime senza incertezze. L’empatia si compie, indipendentemente dalla nostra attenzione, dedizione e interesse.

Storia

In tempo di pace, di Kabul si andava a Paghman in gita e in villeggiatura. La città era considerata il giardino di Kabul. È sito in una valle rigogliosa, fervida dei riverberi del suo omonimo rio, lungo il quale si affacciavano chioshi e chykhana (sale da the). Gli ordigni della guerra civile (1992-1996) hanno raso al suolo le ragioni di quelle villeggiature. Ma le bombe non hanno spazzato via l’origine della storica vocazione agro-pastorale.

In groppa a un asino la ragazza, rientrava infatti da una dura giornata di lavoro nei campi. La sua espressione pare un silente urlo di una sofferenza che non troverà mai solidarietà, che non potrà che tenere per sé, come le lacrime che non le percorreranno il viso.

Nonostante abbastanza adulta da dover indossare il burqa, non lo portava come da tradizione dell'etnia Aimaq, originaria delle valli centrali dell'Hindu Kush.

L'immagine maggiormente esportata in Occidente della figura femminile afghana (in burqa) è relativa principalmente alla cultura Pashtum. Tipico invece della cultura aimaq è che la donna indossi vesti e drappi molto colorati e particolarmente estetici.

Per un fotografo maschio e occidentale non è mai ovvio riprendere figure femminili in Afghanistan.

 

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